Care lettrici (e lettori, che tanto sbirciano di nascosto), parliamoci chiaro: negli ultimi anni il mondo della moda urla “Inclusività!” a destra e a manca, con campagne pubblicitarie che sembrano un collage di tutte le diversità possibili. Ma siamo sicure che questo siparietto sia davvero autentico? O è solo un misero tentativo di pulirsi l’immagine e farci gridare “Che progresso!” mentre loro vendono la stessa borsa di sempre a prezzi disumani?
La recita delle taglie “curvy”
I brand gridano al miracolo presentando collezioni plus size, ma spesso queste linee sono così limitate (e mal tagliate) che sembrano l’equivalente fashion di una merendina scaduta. Un gesto simbolico, sì, ma di reale c’è ben poco. Ti fanno la taglia “curvy” giusto per la foto su Instagram e poi al negozio trovi al massimo una 46 abbondante – e se non ti va bene, ciao!

La diversità “a gettone”
Fotografano modelle con pelle scura, con disabilità, con misure fuori dai canoni… e poi? Ti spuntano in passerella una volta all’anno, magari in mezzo a un mare di fotocopie standard. È come se dicessero: “Ehi, guardate, anche noi siamo al passo con i tempi!”. Ma le persone reali, tutti i giorni, dove sono?
Quel retrogusto di marketing
Ricordiamoci che la moda è un business. L’inclusività fa vendere, perché ci fa sentire parte di qualcosa di più grande e giusto. Ma dietro la facciata di tolleranza e apertura c’è spesso l’ansia da prestazione del brand, che teme i linciaggi social se non segue il trend del momento. Morale: più che un vero cambiamento, sembra una manovra commerciale per racimolare cuoricini e consensi online.

L’assenza di reali cambiamenti interni
Le aziende spesso non cambiano l’organico dietro le quinte. I manager e i direttori creativi rimangono gli stessi, con la stessa mentalità di vent’anni fa. Magari chiamano un creativo “alternativo” come ospite, giusto per fare scena, ma le decisioni più grosse le prendono sempre i soliti. E se non cambia chi comanda, come può cambiare davvero la moda?
La missione (im)possibile: trasformare la passerella in normalità
Vogliamo vere campagne inclusive dove la diversità non faccia notizia, ma sia la normalità. Vogliamo che le grandi firme smettano di “incastonare” l’inclusione in poche collezioni speciali e inizino a produrre linee continue e davvero adatte a tutte. Perché quando una cosa è davvero inclusiva, non si ferma a un exploit pubblicitario di mezza stagione.
In conclusione, care mie, non facciamoci abbindolare dal nuovo spot lacrimoso con la super modella curvy o la tagline “One size fits all” che in realtà non fit-a un bel niente. Perché dietro queste belle parole c’è spesso più fumo che arrosto. E a noi, che siamo donne (e uomini) con stile e carattere, piace scovare la verità tra le pieghe di un vestito apparentemente perfetto.
Alla prossima “tiratina d’orecchie”,
Sara TSG
Il blog dove il chic incontra la cattiveria… rigorosamente con un filo di rossetto sul bordo della tazzina.